Wavefront


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WAVEFRONT, Bill Viola

WAVEFRONT, Bill Viola

di Luca Baldazzi

 

Nella sala mostre del Comune di Trieste, Sala “U. Veruda” di Palazzo Costanzi, da oggi e fino al 18 agosto è allestita la mostra “Wavefront” che raduna una raccolta di lavori, tra cui alcune storiche pietre miliari dell’arte contemporanea. Tra di esse il videotape “Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat)”, 1979, di Bill Viola che idealmente apre il percorso della mostra. Filmati quasi quarant’anni fa dal grande artista statunitense e diventati una delle icone della videoarte mondiale, i miraggi nel deserto del Sahara e la neve abbacinante nelle praterie nordamericane, che mettono alla prova la parte fisica e quella psicologica della nostra percezione della realtà, fino al limite dell’allucinazione, sono proposti come chiave di ingresso per lo sguardo contemporaneo dentro alle emozioni della visione di un’opera d’arte che la mostra vuole offrire.
L’esposizione “Wavefront”, organizzata dal Comitato Trieste Contemporanea con il contributo del Comune di Trieste, propone le opere di Irma Blank, Igor Eškinja, Emanuela Marassi, Ian McKeever, Adrian Paci, Alfredo Pirri, Nedko Solakov e Bill Viola, con una serie di lavori in tutti i quali è possibile riconoscere una forte attenzione degli autori verso gli agenti, siano essi fisici o concettuali, che possono essere messi in campo in un’opera per attivare nello spettatore un processo di passaggio da una condizione visiva ad una emotiva.
Le opere di Trieste sono in questo senso alcuni esempi che fanno parte del medesimo fronte d’onda, come sottolinea la curatrice Giuliana Carbi Jesurun: “l’intento espositivo è quello di poter forse identificare come uno degli obiettivi oggi più formidabili per l’arte contemporanea proprio il dare rappresentazione aggiornata al ricondurre l’instabile ad equilibrio, il minimo a partecipata risonanza, il paradosso ad armonica accoglienza, come era, a ben guardare, sempre sottinteso nel compito di “propagazione” di complessità vibrante/ordinata che era chiesto nei secoli passati a qualsiasi forma della nostra cultura in grado di far concordare la nostra mente e il nostro cuore… per le quali in campo visivo allora si parlava di bellezza, classicità, quid estetico…”.
A questo intento provano a rispondere l’otticità pulsante di una scrittura non legata al sapere ma all’essere degli Ur-Schrift (2000-2006) di Irma Blank (Germania 1934); il non-confine di luce e forma debordanti dei Kindertotenlieder, (2015) dedicati a Gustav Mahler da Alfredo Pirri (Italia 1957), dove la superficie si riprende il suo ruolo puro di elemento spaziale; l’atto del vedere che si trasforma in esperienza mentale per Bill Viola (USA 1951); la purezza d’astrazione, indistinta tra fotografia e pittura, con la quale nella serie Eagduru (2013) Ian McKeever (UK 1946) sviluppa l’approccio “proto-fenomenologico” che aveva la parola finestra nell’inglese antico; la trasformazione della realtà – di una nave in viaggio e delle deformazioni produttive dell’economia globale – nel luogo di “lavorazione” dell’immaginazione, come è nel video The Column (2013) di Adrian Paci (1969 Albania); le morbide sorprendenti modalità di un vero e proprio passaggio “autoriale” del tempo sui giornali non scritti nelle Camere con vista (2015-16) di Igor Eškinja (Croazia 1975); l’ambiguità tra la vanitas e il memento mori nel gioco di rimandi della storia uguale di parole e di materiali nell’opera Casanova (1999) di Emanuela Marassi (Italia, 1937); la paradossale ciclicità ininfluente dell’opera-performance A Life (Black & White) (1998) con la quale Nedko Solakov, (Bulgaria 1957) nel 2001 stupiva il pubblico della Plateau of Humankind di Harald Szeemann ridipingendo continuamente di bianco e di nero la stessa sala per tutta la durata della 49a Biennale di Venezia.

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