Germano Celant, Arte Povera ma non soltanto quella


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Nel 1967 sulla rivista Flash Art appariva un articolo dai toni piuttosto eloquenti, il cui titolo era “Arte Povera. Note per una guerriglia”, forse uno degli ultimi manifesti programmatici di una di quella che ha voluto essere, o le hanno voluto far credere di essere, l’ultima avanguardia del Novecento. A scriverlo Germano Celant, scomparso a Milano lo scorso 29 aprile, altra vittima del Covid-19, il virus che nel giro di pochi mesi ha cambiato il volto del mondo.

«Un nuovo atteggiamento per ripossedere un reale dominio del nostro esserci, che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire non l’opposto»: ecco uno stralcio del testo di Celant che qui definisce l’Arte Povera. 

Autore: LaPresse/Gian Mattia D’Alberto
Ringraziamenti: LaPresse

La sua storia comincia qualche mese prima alla Galleria La Bertesca di Genova, città in cui Celant era nato nel 1940 e si era formato sotto la guida di Eugenio Battisti, fondatore della rivista Marcatré, legata al Gruppo 63, che trattava di arte, letteratura, architettura e musica, cercando di superare i confini che distinguevano le varie discipline. La breve collaborazione con Marcatré fu per Celant un’esperienza appagante, necessaria per il suo percorso, così come la conduzione del Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea, voluto sempre da Battisti. 

Alla Galleria La Bertesca Celant scopre le sue carte, organizzando una collettiva in due sezioni: “Arte povera – Im Spazio”. Chiama a esporre, da una parte Ceroli, Bignardi, Icaro, Mambor, Mattiacci e Tacchi, dall’altra Paolini, Boetti, Fabro, Prini, Kounellis e Pascali. I loro lavori «riguardano fondamentalmente archetipi mentali e fisici, tentano di evitare ogni complicazione visuale, per offrirsi come dati di fatto. Dimostrano una tendenza generale all’impoverimento e alla decultura dell’arte (da cui il termine di Arte Povera)». 

Ne scaturiscono opere, ottenute utilizzando materiali quali il legno, la paglia, la terra, la stoffa etc., che, legandosi inizialmente in maniera piuttosto confusa con il Minimalismo, affrontano tramite i nuovi mezzi, resi possibili dallo sviluppo tecnologico, le problematiche espressive ereditate dagli informali. In quegli anni si cercava di individuare il grado zero, non della pittura, ma dell’oggetto artistico in quanto tale, svuotato di ogni suo contenuto. L’Arte Povera di Celant chiude il cerchio, considera cioè qualsiasi oggetto ormai del tutto reificato e di conseguenza esso deve essere negato a priori in quanto prodotto della società consumistica.

Tra le altre mostre che hanno contribuito all’affermazione di Celant ricordiamo quella del 1968 all’Arsenale di Amalfi “Arte Povera + Azioni Povere” con Anselmo, Boetti, Fabro, Kounellis, Merz, Paolini, Pistoletto, Zorio; quella alla Galleria De’ Foscerari di Bologna, dove è evidente l’influenza dello Strutturalismo; quella del 1970 alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Genova “Conceptual Art, Arte Povera, Land Art”, dal taglio più internazionale e innovativa perché conteneva anche film d’artista e opere non soltanto italiane.

Sarebbe però ingiusto ricordare Germano Celant, associandolo solo all’Arte Povera, peraltro da lui dichiarata esaurita già nel 1971. Egli da quel momento iniziò un brillante cammino da curatore che lo portò al Guggenheim di New York (nel 1994 “Italian Metamorphosis 1943-1968” per avvicinare l’arte italiana a quella americana), al Centre Pompidou di Parigi, a Palazzo Grassi di Venezia, dove nel 1997 fu anche chiamato a dirigere la Biennale d’Arte “Futuro, presente, passato” e in seguito alla guida della Fondazione Vedova. Poi ancora a Firenze con la Biennale Arte e Moda, a Milano la direzione della Fondazione Prada, le mostre alla Triennale e quella che sollevò un vespaio di polemiche a Expo 2015. 

L’ultima mostra di Celant è stata quella al Mart di Rovereto sullo scultore americano Richard Artschwager; stava inoltre lavorando con l’amico Michelangelo Pistoletto (altro artista colpito dal Covid-19 e fortunatamente guarito) al catalogo ragionato della sua produzione. 

Celant frequentò anche i territori dell’architettura, trattandola col piglio dell’arte. Alla Triennale di Milano nel settembre 2009 curò l’esposizione dedicata ai lavori dell’amico Frank O. Gehry dopo il 1997, cioè dopo il Museo Guggenheim a Bilbao, punto di rottura dell’architettura contemporanea. Un rapporto, quello tra Celant e Gehry, che aveva preso avvio già nel 1986 al Castello di Rivoli con “Disordine in architettura”, in cui si poneva all’attenzione del pubblico come il concetto di ordine stesse poco a poco tramontando e con esso i vacui riferimenti alla storia del Postmoderno. 

Alla Triennale Celant aveva coniato una fortunata definizione, “architettura centauro”, da intendersi come «la prospettiva di disaggregare le articolazioni e i volumi degli edifici tradizionali per riproporli come un montaggio di spazi, di funzioni e di codici per comunicare un’architettura che non è unificata, ma è a trama diversificata: un collage non finito che sconvolge, come un centauro, il sistema omogeneo dei corpi». Architettura come scomposizione delle forme elementari, eclettica, ma impattante.

L’allestimento tradiva il passato “povero” di Celant: scarno, essenziale, senza troppi fronzoli. Aspetto che conduce a un rimprovero che gli è stato mosso, specie negli ultimi anni, ovvero di non essersi mai liberato dell’Arte Povera e di averla cristallizzata, storicizzandola. Una critica che se da un lato è legittima, dall’altro perde di consistenza, poiché lo stesso Celant aveva chiuso i battenti del gruppo trent’anni prima.

All’Arte Povera Celant è rimasto sempre legato e non poteva essere altrimenti, anche se non amava essere definito il suo inventore: «Non invento niente – spiegò in una lunga intervista ad Antonio Gnoli – Arte Povera è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera». Forse ha ragione lui, non c’è, tuttavia – questo credo ce lo avrebbe concesso – se ancora oggi possiamo parlare di Arte Povera la definizione c’è grazie a Celant. 

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