Gioxe De Micheli. La mia Babele


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Gioxe De Micheli, La mia Babele, olio su tela cm 200×140

Alla Sala Ristorante dell’Università Bocconi di Milano, da oggi 17 settembre al 9 novembre Gioxe De Micheli espone “La mia Babele”, autopresentandosi così: “Babele – olio su tela, cm 200×140 -, contrariamente al mio modo abituale di lavorare per cicli pittorici, nasce come opera unica dettata dalla fascinazione esercitata in me da questo tema. Un impulso che mi ha spinto a raccontare. La voglia di raccontare è un istinto primario, è la voglia di parlare ai propri simili, di sopravvivere, di rimanere ancora un po’ e, infine, anche di essere ricordati. Da molti anni il racconto è scandalo, quasi un tabù. Identificato col “vecchio” o col propagandistico, sbalestrato dal vorticoso mutare dei gusti e delle mode, intimidito dalla voracità del “pensiero effimero”, non riesce più a essere protagonista. Insomma, il racconto fa paura. A me no! Così ho dipinto Babele. Nessuna “ispirazione” piovuta dal cielo, l’opera, il dipinto, è già potenzialmente presente nell’intrico esistenziale dell’artista, nel suo mondo poetico e lì aspetta la germinazione. La germinazione avviene quando nell’uomoartista, calato con tutti i suoi sensi nella complessità della vita, irrompe un sentimento, un’emozione. Per quanto riguarda Babele, posso dire che tutte le volte che passavo dallo svincolo della Parma-La Spezia vedevo una specie di gigantesca Casa dei container: rossi, gialli, verdi. Li guardavo e li dimenticavo. Poi ho visto sulla Cisa le file di camion. Poi al TG ho visto giovanotti con la testa rasata massacrare un uomo indifeso, ho visto le città assediate dall’immondizia, ho visto, malinconicamente, ammainare la mia bandiera e malgrado questo avrei ancora voglia di intonare sul mio flautino l’aria di una ballata. Poi a casa di amici mi imbatto nel catalogo di una grande mostra sul tema Torre di Babele. Dalle xilografie medievali a Bruegel. Bruegel, che meraviglia! E allora, toute proportion gardée, mi dico: “La voglio fare anch’io!”. In quel momento mi si sono parati davanti, provenienti chissà da quali anfratti della memoria, tutti i tasselli: i container, i camion, la scena di violenza, i sacconi neri dell’immondizia e a questi, attratti come da una calamita, si sono aggiunti altri elementi: una piccola Ultima Cena, la sfera della divinazione, gli scatoloni del trasloco, i barili di petrolio, il groviglio inquietante dei cavi elettrici. Il quadro era fatto. Era stato il piccolo scatto di una molla a mettere in funzione un ingranaggio collaudato, quello del lavoro costante e quotidiano con il processo creativo. Mi sono divertito: metafisica, metafora esistenziale, introspezione, classicità e persino il carretto siciliano. All’ultimo piano della torre ho citato Böcklin: L’isola dei morti. Allusione fin troppo chiara, forse, però ci sta bene.”

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