Il crollo della carne come crollo del potere


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Quando André Breton, il capofila del surrealismo, lo accusò di difendere il “nuovo” e l’“irrazionale” del “fenomeno Hitler”, Salvador Dalí respinse queste affermazioni dicendo: “Non sono un seguace di Hitler, né nei fatti né nelle intenzioni”. Al dittatore tedesco s’ispirò con tre dipinti: L’enigma di Hitler (1939), Metamorfosi di Hitler in un paesaggio al chiaro di luna (1958) e Hitler si masturba (1973).

Tono Zancanaro, Gibbo, Gibbone – 1945

Grosso modo nello stesso periodo, nei primi anni Quaranta, dal primo quadro di Dalì, Tono Zancanaro avviò il ciclo del Gibbo, personaggio nato da una sintesi fra le figure di un personaggio filmico del 1935 diretto da John Ford, tratto dall’omonimo romanzo di Liam O’Flaherty, vincitore di quattro Premi Oscar, il cui personaggio principale si chiama Gypo Nolan, che tradisce i compagni di lotta irlandese contro l’occupazione britannica, e la figura gigantesca di un lottatore visto in un circo a Bolzano. Quindi una figura “frankensteiniana” potente nelle sue forme dilatate e molli. Ma tutto questo dentro un disegno fluido e continuo che ne denunciava il contorno flaccido. Questo suo personaggio stava per l’avatar, la controfigura come si direbbe oggi, del dittatore Mussolini essendo all’epoca della sua configurazione disegnativa ancora vigente la dittatura fascista. Lo stesso Dalì, durante il suo processo surrealista, davanti a Breton, dichiara che ciò che lo colpiva non era la camicia bruna del Dittatore, bensì la carne sottostante che era, secondo lui, molliccia e decadente. Quindi una critica sociale che si profila sotto una visione artistica la quale denuncia la mollezza della carne come suina prova della depravazione del potere. E, se negli anni Quaranta la decadenza del potere si misurava con la penna e lo stilo dell’incisione: si pensi a Goya e ai suoi Disastri della Guerra, o a Otto Dix con Der Krieg (La Guerra, 1924), altri artisti, oggi contemporanei, usano il corpo quale strumento artistico per denunciare le atrocità della guerra come la serba Marina Abramovic con la sua performance Balkan Baroque che prese il Leone D’Oro alla Biennale di Venezia nel 1997 esponendosi sopra un grumo, una montagnola, di ossa di bue sanguinanti mentre cantava una canzone popolare del suo paese. Ma un altro artista, questo più giovane della Abramovic, il polacco: Artur Zmijewski con il video KRWP ha messo in luce i meccanismi del potere sminuendoli, poi, grazie alla nudità del corpo compreso nella sua semplicità adamitica. In questo video vengono ripresi i soldati della Guardia Rappresentativa dell’Esercito Polacco mentre marciano in addestramento, prima in una piazza pubblica, poi svestiti all’interno di una palestra. Spogliando i soldati delle loro uniformi, e decontestualizzando le loro manovre, Zmijewski colpisce il concetto di Autorità: da un lato sottolinea l’inutilità delle esercitazioni come azioni in sé, e dall’altro restituisce ai soldati la propria individualità, perduta a causa della divisa che rende tutti semplici esecutori di ordini. Si ricordino le torture di Abu Ghraib dove la soldataglia statunitense aizzava i cani contro prigionieri arabi nudi. Da qui si intuisce pure il peso di cui gode il peccato originale nel mondo cattolico. Si dice che questo abbia origine a causa della volontà di conoscenza da parte della coppia Adamo ed Eva. E cos’era questa conoscenza se non il sapere di essere individui singoli consegnati alla vita, al dolore, ed alla morte e non “marionette” dentro un “recinto” (detto pardez, paradiso in persiano) in mano di un Dio che tutto decideva per loro? L’arte serve pure a questo: a conoscere il nostro destino!

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