A Venezia la pittura colta e libera di Osvaldo Licini


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Osvaldo Licini, Amalassunta su fondo verde, 1949 Olio su tela, 79,5 × 99 cm, Collezione Gori-Fattoria di Celle, Pistoia

Sono passati sessant’anni esatti dalla scomparsa di Osvaldo Licini, uno dei personaggi più eclettici dell’arte italiana del Novecento. Per uno strano scherzo del destino, nello stesso anno qualche mese prima della morte, era il il 1958, l’artista marchigiano fu insignito del Gran Premio della Pittura alla XXIX Biennale di Venezia. In quell’edizione a Licini fu dedicata una sala personale, allestita da Carlo Scarpa.

La Collezione Peggy Guggenheim, per celebrare questo anniversario, ha organizzato la mostra “Osvaldo Licini. Che un vento di follia totale mi sollevi”, curata da Luca Massimo Barbero. Inaugurata il 22 settembre, proseguirà sino al 14 gennaio 2019. Undici sale espositive e oltre cento opere fissano il percorso di Licini che nel 1935 definiva la pittura un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia. Una dichiarazione d’intenti che poi non è mutata, anzi si è fatta quasi manifesto.

Bologna cruciale, Parigi, La pittura di paesaggio ovvero il paesaggio di pittura, Licini e il gruppo del Milione, Archipittura, Segni e non sogni, Amalassunta, Gli ultimi anni e la nascita del “mito Licini”, Angeli ribelli: sono questi i principali nuclei tematici scelti dai curatori per spiegare l’evolversi di una personalità che è sempre stata attenta a ciò che gli capitava intorno, ma che non ha mai ceduto alle lusinghe delle mode, fiera della propria autonomia di pensiero e di linguaggio.

«Uno dei più colti e meno illusi tra gli artisti italiani» lo ha definito a ragion veduta Giulio Carlo Argan che di Licini ammirava la malinconia storica, cioè la storia come eterno medioevo. Citando Montale «la storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta». Allora viene in soccorso la poesia che, al pari della pittura, è un puro atto di volontà e di creazione, laddove l’irrazionalità prevale sulla razionalità.

Licini osserva e medita sui fenomeni artistici a lui contemporanei, ma attenzione, lo fa dalla periferia, non dal centro. Anche la sua vita lo ha confermato: nato, nel 1894, e morto, nel 1958, a Monte Vidon Corrado, piccolo comune marchigiano della provincia di Fermo. Tuttavia per conoscere l’arte, per farla sua, bisognava affrontarla vis-à-vis; così ecco Licini appena quattordicenne a Bologna insieme a Giorgio Morandi, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. Poi, dopo la Prima Guerra mondiale, a Parigi (dove si erano trasferiti i genitori quando lui era bambino) si avvicina a Picasso, a Cocteau, a Modigliani. Incontri che lo stimolano a intraprendere altre strade, a osservarle con occhio critico e a interpretarle senza tentennamenti.

In tutto questo bailamme, l’onnivoro Licini sperimenta e si afferma. Dapprima propenso al figurativo (si vedano i suoi paesaggi marchigiani che trovano eco nelle liriche del conterraneo Leopardi), quando questo viene fatto dogma dal “ritorno all’ordine” del Novecento, egli – ben supportato dal gruppo del Milione – si rifugia nell’astratto, dapprima schematico e geometrico (Archipittura), poi più libero e onirico con rimandi alla poesia visiva, fatta di segni e di cifre.

Sarebbe però fuorviante allineare Licini all’astrattismo, lui stesso ricuserebbe. In una lettera del 1952 all’amico Giovanni Marchiori scriveva che «io non sono più astrattista, adesso, io, me ne vado un po’ svolazzando per conto mio, nei cieli della fantasia: e così, di cielo in cielo, sono diventato un angelo abbastanza ribelle, con la coda insomma, e qualche volta, mi diverto a morderla, questa coda». È verso la fine degli anni ’40 che Osvaldo Licini dà voce e forma ai suoi personaggi più noti: Olandese Volante, Angelo Ribelle e Amalassunta.

«È la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco», così l’artista racconta Amalassunta il cui nome può assumere un significato religioso (la Vergine Assunta con il gioco di parole a-male-assunta), ma pure storica poiché ricorda la regina ostrogota Amalasunta, regina degli Ostrogoti. Graficamente si ispira a Klee, ma nei gesti, nelle sfumature, nei colori pare più anarchica e ironica. In altri termini consapevole dell’indecifrabilità delle cose.

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