Londra e New York, destini artistici


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Esistono due città al mondo, London Town e New York City (in Italia note come Londra e Nuova York), che, dal secondo Novecento ai nostri giorni, condividono gli stessi destini artistici, unite, insomma, per ragioni di cultura, lingua, religione, politica, società, al progredire di un’estetica o cultura, dapprima neoavanguardista, quindi post moderna: un destino artistico, spesso nemmeno voluto o cercato, che però si riversa in abbondanza in molti campi, dalla figurazione all’architettura, dalla narrativa alla musica, dal teatro al cinema.

Per limitare il discorso alle sole arti visive, sembra dunque innegabile quanto Londra e New York riescano sempre più a imporsi sullo scacchiere mondiale, nonostante alcune premesse sfavorevoli: benché protagoniste della ‘occidentalità’, in senso lato, anche grazie alla vittoria di due ben guerre mondiali, Londra e  New York come pure le loro rispettive patrie (Gran Bretagna e Stati Uniti) assomigliano ben poco, sia in generale sia sul piano dell’arte e della cultura, al resto dell’Europa e del Centro-sud America (il continente, fra tutti più europeizzato).

La situazione di ritardo di Londra e New York nel primo Novecento – rispetto alla precoce velocissima affermazione del movimentismo avanguardista, a inizio Novecento, in città come Parigi, Berlino, Monaco, Amsterdam, Mosca, Barcellona, Praga, Vienna, Mexico City, che è un risultato sorprendente, ma che però viene in parte smussato o sminuito dall’insorgere delle dittature e dei conflitti internazionali – viene colmata in tempi altrettanto rapidi nella seocnda parte del XX secolo proseguendo sino ai giorni nostri.

Dal 1945, infatti, a quelle metropoli si affiancheranno le due megalopoli più etnicamente variegate dell’epoca, Londra capitale effettiva di un impero in declino, New York capitale morale di una nazione in ascesa.

Sono quindi molti e significativi i nomi paralleli di un analogo portato estetico-culturale, riguardanti eventi, artisti, movimenti, gruppi passaggi, eccetera; inoltre alcuni pittori e scultori risultano celebrati già dagli anni Cinquanta-Sessanta, restando casi isolati, pur guardando a certo realismo come Edward Hopper e Francis Bacon o al contrario optando per l’astrazione nel caso di Mark Rothko ed Henry Moore: tutti creano genialmente,  riportando l’idea di pittura o di scultura al centro dell’attenzione visiva in un momento in cui anche a Londra e a New York l’arte vuole riprendere la carica oltranzista delle avanguardie storiche.

Sarebbe interessante in tal senso, approfondire pure il discorso sull’architettura – di recente simboleggiata da archistar come gli inglesi Norman Foster, Tom Wright, Zaha Hadis e gli americani Frank O’Gheri, Daniel Libeskiind, Richard Meier – esposta a immensa visibilità in tutto il mondo, benché gli epicentri della progettualità restino sempre a Londra e New York, città vissute però quali modelli antitetici: la prima in cui si sperimenta un’edilizia legata all’urbanistica anche nel senso del’interesse sociale comunitario (non senza qualche episodio ‘monumentale’ distintivo), la seconda, da circa un secolo, come sviluppo in verticale, anche in chiave spettacolarizzante, quale esibizione del potere, con tipologie riprese addirittura dal terzo mondo, dove convivono selve di grattacieli accanto a tristi baraccopoli senza zone abitative intermedie. In entrambi i casi, tratto distintivo alle archistar a Londra e a New York (e ovviamente, di riflesso, in molte altre parti della Terra)  è certo gusto ‘pop’ ereditato da due importanti ‘fenomeni’.

Tornando, infatti, a Londra e New York, sono appunto altri due fenomeni (in ambito estetico) divenuti ben presto pop ovvero popular – non solo nell’accezione di popolari – che al di qua e al di là dell’Atlantico fanno la Storia dai Sixties a oggi: i due pop, ovvero la pop-art e la pop-music.

Pop-art, si sa, è una tendenza visiva (pittorica, scultorea, fotografica, multi-media) sorta in parallelo, tra Inghilterra e America: alcuni studiosi indicano, all’origine di tutto, il collage Ma cosa rende le case così diverse, così attraenti? (1956) di Richard Hamilton esposto alla mostra This Is Tomorrow dell’Indipendent Group all’ICA, londinese Institut of Contemporary Art, la prima vera opera pop; altri invece pensano che la genesi del pop risalga a una delle più famose, Combines,dal titolo Bed (1955) di Robert Rauschenberg, vista alla Charles Egan Gallery, quale anticipatore dell’intera cultura pop, benché l’artista appartenga a un filone all’epoca definito new dada o junk art.

Bed (1955) di Robert Rauschenberg

Comunque tanto la pop-art a Londra quanto il corrispettivo di New York per una prima volta rappresentano, con estrema consapevolezza e con stile freddamente realista, gli oggetti familiari della contemporaneità tecnologica, consumista, mitizzata, narcisistica, massiva, come mai accaduto prima di allora.

Pop-music è perlopiù una forma-canzone dalle svariate influenze e declinata soprattutto in ambito rock, folk, dance mediante dischi, raduni, megaconcerti, che si standardizza per ottenere un’audience planetaria, grazie all’uso dell’inglese per i testi e del marketing per il lancio reclamistico (più merce che arte in tal senso).

Le due novità – pop-art e pop-music – vivranno anche momenti di simbiosi con le subculture giovanili tra il 1965 e il 1980, con una sorta di ribellismo alternativo via via definito psichedelico, hippy, underground, glam, punk, termini per i quali esiste sia un’arte visiva (soprattutto grafica, pubblicitaria) sia una ‘scuola’ musicale (condotta talvolta all’eccesso). Ma è sul finire del XX secolo che Londra e New York – rinnovatesi anche grazie a nuove estetiche come il design, la moda, il videoclip, la computer art – ribadiscono la propria vocazione ad attirare nuovi artisti e a plasmare inediti scenari figurativi, preannunciati già altrove, da molti decenni.

Infatti, dagli anni Ottanta, dopo un quarantennio caratterizzato – a parte la pop-art –  da esperimenti oltranzisti da tutto il mondo – action painting, nouveau réalisme, minimal, arte povera body art, performance, land art, videoart – i transavanguardisti italiani, i nuovi selvaggi tedeschi, i bricolage scultori britannici e i graffitari spray statunitensi riportano quasi subito all’attenzione del pubblico una tendenza genericamente chiamata postmoderna – che però nell’architettura e nella narrativa angloamericane ha regole ben precise – volta al recupero del ‘fare arte’ in chiave genuinamente pittorica e scultorea quasi bypassando gli azzeramenti neoavanguardisti.

La nuova arte del XXI secolo ha quindi, in tale postmodernità, gli epicentri maggiormente creativi a Londra e New York, nonostante la concorrenza dell’estremo oriente (Cina e Giappone in primis) e della vecchia Europa  e della stessa Italia (ad esempio Milano, Torino, Napoli, Roma, Venezia vantano iniziative cosmopolite di massimo prestigio). Si potrebbe in tal senso disquisire singolarmente di nuovissime tendenze; e le etichette si sprecano dal 2000 a oggi: in ordine alfabetico, aftermodern, art now, eccessivismo, idea art, kitsch movement, pop-surrealism, post-contemporary, posthuman, pseudorealismo, renewabe energy sculpture, street art, stucchismo, superflat, V-jing, young british art.

Oppure si potrebbe sintetizzare il discorso su una decina di eventi ‘artistici’ di varia natura, come fa il pluricitato Lee Chemire negli ultimi capitoli del suo bestseller Key Moments In Art: persone, luoghi, idee, episodi di varia natura che fanno intuire quanto l’ago della bilancia penda forse definitivamente sulle due città dell’Union Jack e a Stelle-a-Strisce (tanto per ricordare le due bandiere più usate nell’immaginario collettivo, nella pubblicità visiva, nel merchandising pseudoartistico e persino quale soggetto di quadri, collage, disegni, performance). Ma di tutto ciò si parlerà nel prossimo articolo.

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