Arte e città ai tempi del Coronavirus


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L’arte vive di città, soprattutto ai nostri giorni, benché il coronavirus, da febbraio a oggi, congeli l’attività più tangibile al fruitore attivo, curioso, interessato: chiusi i musei, come pure mostre, gallerie, musei, pinacoteche, persino molti luoghi pubblici e privati dove sono presenti manufatti artistici di pregio risultano in accessibile ai comuni mortali. L’unico ‘vantaggio’ della quarantena consiste, per gli amanti di architettura e urbanistica, nelle città e nei borghi senza traffico, immaginando gli spazi così come si manifestano agli abitanti dei secoli passati. Persino ad esempio le fontane di Roma o le calli di Venezia, senza le frotte di turisti spesso maleducati artisticamente, riemergono nella loro bellezza autoriale incontaminata, anche se l’habitat umano è da sempre qualcosa che necessita di contatto fisico, metaforicamente esemplificato non solo dagli ‘assembramenti’ ora vietati, ma da voci, rumori, grida, profumi, gesti, mosse, viaggi, contatti, fino a giugno con forti limitazioni da parte della legge.

Veduta di Abu Dhabi dalla sede locale del Louvre

Tutto questo lockdown anche psicologico non impedisce all’arte di star ferma, anzi mai come nei tre mesi della ‘serrata’ da un lato gli artisti operano, creano, producono nei propri atelier (o addirittura in casa, oppure sul web, ma questo è un altro discorso), dall’altro le istituzioni offrono ‘visite’ virtuali a mostre e musei in rete, dall’altro ancora la critica, come qui ad esempio Agenzia Verso l’Arte, lavora incessantemente, giacché l’informazione e la conoscenza restano valori fondamentali e indispensabili anche soprattutto durante le pandemie, onde restare sempre vigili, partecipi, consapevoli, persino di una ‘realtà’ tutta speciale come l’arte figurativa, la quale, a sua volta, da sempre accompagna le civiltà umane.

Detto questo, la città nella storia è il referente costante per la nascita e lo sviluppo delle teorie e delle pratiche della figurazione (pittura, scultura, architettura), come testimoniano i siti archeologici da ogni angolo del Pianeta stesso – Egitto, Mesopotamia, India, Cina, Indocina, Mesamerica i più antichi – mentre sul piano di una matura consapevolezza estetica – classica, appunto si potrebbe chiamare – è l’Atene di Pericle a esprimere il meglio assoluto o l’ideale supremo per tanti secoli diventando la citazione d’obbligo o per antonomasia degli artisti e degli studiosi dal Rinascimento al Neoclassicismo. La città di Fidia e del Partenone passa quindi il testimone ad Alessandria d’Egitto la prima, nella storia, a dotarsi del museo e della biblioteca, quali istituzioni pubbliche. Durante l’antichità non si può nemmeno dimenticare la Roma imperiale, per quantità e magniloquenza di opere artistiche, nonostante l’innegabile discendenza greco-ellenistica, al limite del plagio.

In Occidente il risveglio dei rapporti arte/città avviene, dopo le invasioni barbariche, solo attorno al Duecento, con i liberi comuni dell’Italia centrale, seguiti sia dalle signorie anche nella pianura padana sia dalle repubbliche marinare nel Mediterraneo e sulla costa fiamminga. Da allora a oggi la grande arte si esprime in ogni centro abitato d’Europa, ma sono le metropoli o le città divenute capitali di stato o centri di commerci e traffici a ospitare i sommi artisti dal rinascimento al tardogotico, dal manierismo al barocco, dal rococò ai romantici. Per avere un’idea esatta di come però i rapporti arte/città si stabilizzino in ottica moderna, grazie a mode, riti, comportamenti, trasgressioni, che in parte sono tuttora in voga, occorre riferirsi alla Parigi di fine Ottocento che, per quasi un secolo, resta l’oggetto del desiderio (e per molti lo è tuttora) di talune modalità d’artista, di fare arte, di produrre artistismo (in senso buono) . È la Parigi dove gli artisti via via si trovano a gruppi nei caffè per discutere e confrontarsi; si divertono nei cabaret accanto a colleghi ballerini, cantanti, musicisti, intrattenitori; si organizzano per allestire mostre nei loro atelier rifiutando l’ufficialità pomposa; si rivolgono a critici e scrittori (affini per sensibilità) in operazioni di marketing ante litteram; si uniscono al popolo per cause nobili; si legano anche a galleristi di fiducia convinti della ‘bellezza’ delle novità in campo estetico; si dichiarano favorevoli a una tipologia di collezionismo che porti a valorizzare la qualità del moderno, sebbene i rischi della mercificazione aumentino soprattutto nel corso del XX secolo quando, ad esempio, i quadri delle avanguardie da fenomeno rivoluzionario, in mano gli speculatori, diventano sicuro investimenti economici, battuti in aste miliardarie, soprattutto nel tardo Novecento.

Parigi, città d’arte o meglio arte-città per oltre mezzo secolo, cent’anni fa viene affiancata da Berlino, Mosca, Zurigo, Monaco, Vienna, Barcellona, Amsterdam e altre metropoli europee nell’insistita effervescenza del movimentismo avanguardista (esportato, in versione autoctona, fuori continente, solo nella Città del Messico dei celebri muralisti). Ma è New York City dagli anni Quaranta a contenderle lo scettro di capitale dell’arte contemporanea, anch’essa raggiunta, ad esempio negli anni 60, da città italiane come Roma e Milano, e oggigiorno da Shanghai o Abu Dhabi, dove enormi ricchezze private spostano ormai il baricentro del mercato artistico sempre più verso Oriente.

Ora che, quasi ovunque, riaprono mostre e musei, resta però ancora difficile fare previsioni sui tempi brevi, medi, lunghi, degli scenari arte/città: in Italia – ma il discorso varrebbe per tutto il Pianeta – questo scenario è legato al problema del turismo e l’invito del governo a fare le vacanze in loco può anche essere eletto quale tentativo di ulteriore riattualizzazione delle attività culturali. Tre mesi di chiusura e di ‘attesa’ sono apparsi molti e lunghi, benché in una prospettiva storica potrebbero ritenersi come un momento ‘piccolo’ e breve di pausa e riflessione per migliorare il rapporto, la dialettica, persino l’utopia fra arte e città. In fondo, anche l’Atene classica, la Firenze degli umanisti, la bella Milano seicentesca vedono pestilenze ed epidemie, per non parlare della seconda guerra mondiale, dove il delirio hitleriano di onnipotenza si esprime soprattutto nella distruzione e nella perdita di immensi patrimoni artistici (nove milioni di pezzi secondo autorevoli stime) e di città in macerie (alcuni centri storici meravigliosi bombardati irreparabilmente, altri salvi per miracolo).

Ma dopo, per tre quarti di secolo, quelle stesse località tornano essere al centro della vita arte/città. Ora, ai tempi del Coronavirus, forse ‘andrà tutto bene’, ma ‘niente sarà come prima’, come sostengono certi slogan più o meno riusciti: tocca all’umanità, in questo momento, ad esempio con il sostegno dell’UNESCO garantire alla cultura e all’educazione – dove il nesso arte/vita resta primario – un futuro radioso, in quanto sostenibilità energetica consapevolezza. A volte si dimentica il bellissimo precedente: attorno al 1935 il presidente statunitense Franklyn Delano Roosvelt incrementa il New Deal per sconfiggere la grande crisi non solo finanzia immensi cantieri e grandiose opere pubbliche, ma sponsorizza altresì il mondo dell’arte, con pittori, fotografi, architetti, scultori, designer, decoratori in un lavoro collettivo di autentico ottimismo universalista.

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