Francesco Tabusso. Sulle ali della realtà


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Aria tersa, cieli limpidi, sereno e tepore persino sulla neve, natura perennemente florida, prodiga e in festa, casette civettuole arroccate e paesini ridenti, personaggi e modelle ritratti nella loro umanità quotidiana e terrena, sono i carismi ricorrenti nelle opere di Francesco Tabusso (Sesto San Giovanni – MI, 1930 – Torino, 2012), che accolgono sguardi e sentimenti di un pubblico emotivamente uniforme, per la capacità di queste immagini di annullare le differenze create dal raziocinio e dalle condizioni culturali che vestono e, a volte, soffocano le tendenze intime dell’uomo, istintivamente inclini alla pace e alla serenità. Alcuni tratti evocano memorie scolastiche de “La donzelletta vien dalla campagna…”, anche se del romanticismo leopardiano non vi è altro e, appunto per questo, ne proviene una gioia infantile data dall’attesa felice del “dì di festa”, con le aspettative connesse. Gli studi classici hanno determinato una solida maturità intellettuale fin dall’età giovanile diventando per il Maestro, torinese ormai da una vita, connaturale e imprescindibile, autentica origine dell’indiscussa libertà espressiva di pensieri, sentimenti, sogni, desideri ancora, se possibile, più incondizionati.

Francesco Tabusso, Giardino, 2008, olio su tela cm 90×120

Distinguere e stabilire quale sia il confine tra realtà e fantasia, tra quotidiano e favola, tra vero e sublime, è impresa almeno ardua se non impossibile; viceversa sarebbe un inopportuno irrompere nella sfera intima personale e violare il luogo religioso dei sentimenti privati. Tuttavia, perviene una netta sensazione che in questi dipinti sia riposto l’estratto del meglio di ciò che si vede, si esperisce quotidianamente, si pensa, con immagini filtrate, ripulite, rese trasparenti, portate ad una consistenza evanescente materializzata in una icasticità sottilmente e piacevolmente plagiante. In tale ottica si pone la dualità dell’arte di Tabusso, ossia iconica e concettuale, in cui la figuratività è evidente e l’astrazione è ideale, però raggiungibile, anzi raggiunta, pur nella sua utopia. Due caratteri agli antipodi che possono essere uniti tramite un linguaggio sapientemente interprete di un pensiero colto, da un lato e, da un altro lato, portato a una semplicità largamente fruibile. Forme e colori determinano composizioni che sono fotogrammi, un fermo immagine, di una vita vissuta, di momenti speciali e catturano l’attimo breve della felicità dell’esperienza, quel brivido che unisce e separa un prima da un dopo di ogni desiderio e di ogni speranza dalla consapevolezza della realtà.

Sono immagini che colpiscono dritto il cuore e guardandole si ha l’impressione di diventare più buoni, di essersi purificati prima di entrare in un luogo rassicurante, incontaminato, pacifico. Esse sono la chiave magica che apre le porte dei sentimenti positivi e introduce nel mondo perso dell’infanzia, epoca in cui lo sbocciare di un fiore, lo sguardo fisso di un uccellino, il tremore di una foglia al vento procuravano una felicità indicibile. Riconducono a ricordi sedimentati di sogni scaturiti dall’attento ascolto e partecipazione ai racconti fluiti dalla dolce voce protettiva e suadente della mamma e, per questo, elevati allo stato superlativo. Qui, in queste opere, in queste visioni, si cristallizza la costituzionale fugacità del piacere, il lampo di felicità e si rende così eterno e infinito, anche più concreto e recuperabile nel futuro, senza tuttavia stabilire una condizione monocorde di immobilità.

È uno degli aspetti di questo piacere anche la composta contemplazione, non passiva ma partecipativa, di una natura onnicomprensiva, dalla quale si può suggere con golosità la linfa vitale offerta, perché no?, attraverso frutti invitanti, dall’epidermide vellutata e dal profumo irresistibile, che costituiscono il reale nutrimento corporeo e soddisfacimento dei sensi, trasformando il sentimento di Amore in fusione fisica, quindi possessione totale e assimilata.

Bello e vero nelle opere di Tabusso sono reciprocamente necessari, si intrecciano sintatticamente, mediati dal linguaggio dell’artista che esprime distensione, serenità, di una commozione goduta appieno, senza intemperanze, con finezza e rispetto fino a raggiungere i miti dell’esistenza. È una realtà lieve, sfrondata delle zavorre, che mette in evidenza i dettagli belli e ignora tutto ciò che intristisce; ingigantisce i fiori fino a portarli ad un’altezza adeguata a sostenere il dialogo con l’uomo, il quale realizza il suo sogno di connessione con la fantasia per viaggiare sulle ali della realtà.

Più che un’eredità casoratiana, che molti intravedono nella formulazione pittorica di Francesco Tabusso, se ne respira un’altra con radici più remote. Infatti, si riscontra la rivalutazione del relativismo estetico illuminista, evoluto attraverso le esperienze storiche successive, incluso il romanticismo non nostalgico, secondo cui il valore soggettivo del gusto risiede nel piacere dato dal rapporto tra soggetto, oggetto e, aggiungiamo oggi un terzo elemento, tempo, inteso come epoca, particolarmente influente nella cultura attuale.

È sempre l’uomo il punto di raccordo al centro delle cose, con le sue capacità raziocinanti e l’artista, nel caso di Tabusso, in qualità di interprete che presta il proprio genio in aiuto alle sensibilità altrui, proponendo in ogni opera un sunto di molti stimoli, ossia di svariati risultati dei suoi rapporti col mondo, fa sì che l’osservatore ottenga una molteplice e multiforme emozione amplificata nel contatto con un solo oggetto, cioè il dipinto, che si trasforma in cassa di risonanza, contenitore-elargitore di benefici estetici.

Tutt’altro che pittura elementare, ingenua o, meno che mai, naïf; spontanea sì, ma ponderata e calibrata dalla progettazione alla strutturazione, fino all’ultima pennellata di colore, nonché alla firma ed eventuali ulteriori scritte che hanno lo stesso valore partecipativo di ogni altro elemento giustapposto nella composizione, dove maliziosamente si riverberano echi di sensi taciuti. E sono proprio questi ultimi a permeare i dipinti di verità, a generare l’autentico clima dell’opera, che diventa luogo accogliente capace di offrire suoni e profumi, suggeriti dai dettagli che elegantemente indicano l’esperienza avvenuta, garantita dal Maestro sempre disponibile ad assaporare, a odorare, ad ascoltare, a palpare, ad accarezzare con lo sguardo degli occhi e del cuore, prima di offrire gli elementi “esaminati” al suo fare pittura. È un realismo eterodosso, non didascalico o descrittivo o contenutistico, che lascia abbondante spazio all’immaginazione e alla memoria, anzi la stuzzica e la attizza. Condizione che piacerebbe a Proust, avendola egli indicata circa un secolo fa nel suo “Il tempo ritrovato”, quando scrisse che l’espressione d’arte giusta è quella che “… risiede […] non nell’apparenza del soggetto, ma nel grado di penetrazione dell’impressione a una profondità dove questa apparenza conta poco…”; vale a dire essenza e non apparenza. Quindi, conta più l’immediatezza dell’emozione che diventa immagine e scatena un’attività mentale fluente, comunque diretta e controllata, tanto che l’esuberanza coloristica risponde fedelmente all’ordine progettuale di una struttura severamente prefissata. I sensi si gratificano nell’ordine e non nel caos, nel pacifico godimento delle cose anziché nella compulsione dei desideri, potendo così servire meglio le ragioni della propria pittura.

La passione quotidianamente rinnovata del ridare al mondo ciò che da esso ha ricevuto, è per Francesco Tabusso un miracolo che si ripete nel fare e nel produrre pittorico, nell’esercitare un’immutata sensualità nel maneggiare materiali e strumenti, pigmenti, pennelli, tele, carte, nel dominarli, nel perpetuare la consapevolezza di possedere la vita, di mantenere la fedeltà mentale contro quella fenomenica, di essere se stesso con orgoglio e senza falsi pudori, di detenere in lui la peculiarità di

immedesimazione delle facoltà scrutinanti e selettive con quelle folgoranti e istintive. Passione e meditazione, conseguentemente, costituiscono un binomio naturale da cui deriva l’atto creativo, dalla scintilla generatrice, scaturita dall’unione dell’impulso fisico con l’idea e stabilisce l’eternità dell’attimo prescelto.

Se la suggestione dell’opera avviene per via emotiva, spontanea, la sua progettazione dipende, invece, da riflessioni, calcoli, disegni tanto che quando l’artista ritiene di ampliare il contenuto, provoca un concorso di forme e colori aggiungendo elementi animali e/o vegetali, per arricchire il risultato. Il disegno, che nei fogli grafici e negli acquarelli rappresenta il fondamento della tecnica e la soluzione dell’opera, nei dipinti a olio è sia fase preparatoria precedente la pittura che mezzo di calcolo e suddivisione spaziale, di determinazione dei piani e delle prospettive e, infine, tocco finale laddove la sottile linea nera, morbida e sinuosa, percorre i profili dei componenti, anche i più minuscoli, e determina i confini delle zone cromatiche con distinzioni nette tra le parti.

Accanto alla frequente esuberanza cromatica, tesa a stimolare la felicità dell’osservatore, Tabusso amava modulare le monocromie con sfumature o contrasti tra toni pieni e trasparenze, tra timbri forti e velature lievi, tra spessori materici e lavori a punta di pennello.

In “Giardino” bastano due pennellate di carminio poste speculari, l’una al centro del lato superiore e l’altra al centro del lato inferiore, ai margini di un verde intenso, energico, a definire l’equilibrio dell’opera ad accendere la vita della scena; un pettirosso alla base e un altro sulla sommità della siepe, simulano la fissità del primo piano, madreperlaceo come il cielo sopra le foglie dove, però, un caldo raggio luminoso assottiglia e indebolisce lo strato nebuloso illuminando, pure, la traiettoria sulla quale sono situati gli uccellini. Un’occasione per cogliere due fremiti discreti di vita: uccellini e foglie che si confrontano con la statuarietà marmorea di ciò che vivo non è più, ossia persona e frutti, o che sono indifferenti all’ambiente oppure si sono sublimati nella condizione di eternità che nell’aria sovrastante rispecchiano l’infinità universale raggiunta. Un al di qua, dove la sfera privata ha scelto la pace e la tranquillità, lo confermano gli animali senza paure e dove l’uomo se pure assente ha messo l’impronta della sua operosità, è protetto dal muro vegetale che nasconde il mistero di un al di là oltre cui avviene una vita, oppure no, che non può disturbare; la natura difende l’uomo perché il mondo è ciò che sta dentro di lui, il suo universo col respiro del cielo. Dal punto di vista formale, è interessante notare come la parete di foglie taglia la prospettiva e porta tutta l’immagine in primo piano e, come spesso si vede nei dipinti di Tabusso, il secondo piano è scenografia, una visione della lontananza che modifica lo spazio reale e unisce le linee; qui è il cielo, che sembra concentrato in una ristretta area, mentre in altri quadri sono linee dell’orizzonte, di paesaggi, geometrie di case radunate ed esposte alla vista. Inoltre, sorprende la freschezza del linguaggio e dell’espressione che si rinnova di opera in opera, anziché esaurirsi negli anni di lavoro, e nel piacere di dipingere che si percepisce nella cura dei dettagli, qui esercitato nella composizione della fruttiera, nelle nervature delle foglie, nell’espressione sorridente della statua, nelle pieghe verticali della tunica che sembrano voler indicare una continuità ascensionale nella proiezione della siepe, che dietro la statua è più alta ed esce dal perimetro.

Così pure ne “Il raccoglitore di vischio”, dove il soggetto non è il raccoglitore, bensì il vischio che occupa quasi tutta la superficie pittorica e ne determina una visione tridimensionale, quasi optical, per come è trattato lo spazio con forme e colori. Il rigoglioso cespuglio si mostra in tutta la sua affascinante rotondità su un cielo plumbeo, del quale si intravedono piccoli frammenti tra l’intricata matassa di rametti e foglie, di verdi variegati e pluritonali trapuntati da una costellazione di bacche bianche. Esso si rigonfia, virtualmente, ed esce dalla superficie; nel centro assume volume, mentre i bordi si mescolano con lo sfondo e proseguono nella dimensione volumetrica retrostante, invisibile allo sguardo, ma intuibile nel movimento scomposto di linee cromatiche e nell’avvicendamento di luci e ombre. L’uomo è supporto, in tutti i sensi, fa parte del paesaggio in primo piano nell’immagine, una spalla in questo dipinto dove è privilegiato il colore mentre il segno è sottinteso nei pigmenti.

Altre cromie, altre forme, altro soggetto, altra strutturazione nella “Cuoca in cucina”, dove la quotidianità contadina ha preso il posto dell’aristocrazia che si respira nel “Giardino”, ma anche qui la scena si svolge tutta in primo piano e prorompe il calore del focolare. Sul tavolo, numerosi prodotti della natura preludono la preparazione di una ricetta succulenta, che la cuoca sta attentamente studiando. Non a caso la firma di Tabusso è apposta proprio lì, sulla ricetta, perché l’artista è davvero un gourmet e non nasconde la sua passione per i funghi, presenti in quasi tutte le nature morte, specialmente sul tavolo di questa cucina in festa, dove i toni decisi degli elementi sparsi, apparentemente a caso, emanano profumi reali e scandiscono i suoni di una casa viva e di una natura generosa.

La natura, in arte definita “morta”, nei dipinti di Tabusso, dove è tutt’altro che morta, spesso si “affaccia” su paesaggi marini o montani nelle diverse stagioni, da finestre che, spalancate sui cardini, lasciano intuire l’incanto della stanza in cui ci si trova, da uno spazio privilegiato, ad allungare lo sguardo fino all’orizzonte muto. La linea del davanzale definisce il primo piano; la linea altrettanto dritta e parallela del mare, oppure quella spezzata geometrica della montagna o dei tetti delle case, delimita il secondo. Oltre è la luce dell’infinito che, a seconda del tempo e delle stagioni, si propaga calda o spettrale sul resto dell’opera.

La neve sui tetti, in “Natura morta nel paesaggio con neve”, disegna geometrie euclidee che fanno da contrappunto alle forme tondeggianti, ovoidali e irregolari dei frutti della terra, ingigantiti dalla visione ravvicinata e dalla considerazione affettiva dell’autore verso queste creature, dispensatrici di vita in quanto alimenti e, nel contempo, motivo di gioia e soddisfacimento per i sensi.

Quando la magia si concentra completamente all’interno di una stanza, anche spoglia, la figura della modella raccoglie in sé la totalità dei sentimenti, delle passioni, dei desideri, dei sogni, dei progetti. Essa diventa odalisca o fatina, figura ammaliatrice in pochi tratti decisi, sicuri, fluenti, entro cui, poi, rientrano tutti i colori della natura e della tavolozza del Maestro. Le calze, a righe orizzontali multicolori, sono di una bellezza eccentrica, degne del più audace stilista. Ma la donna, per Francesco Tabusso, non è solo un bel corpo da ritrarre; è una creatura terrena e angelica contemporaneamente, che sorride, cucina, legge. È casalinga, intellettuale e strega; è un essere versatile e polivalente, capace di ricoprire qualsiasi ruolo; figura spiritualmente presente e attiva, nella semplicità domestica come nel fatalismo ricercato.

Ovunque risuona un invito al silenzio e all’ascolto di suoni e di accordi sconosciuti.

Questa è poesia di alta vibrazione lirica, che nessuna parola può interpretare, al di là di ogni considerazione tecnica o collocazione storica che, comunque, nel pensiero del Maestro è un aspetto secondario, tanto da non essersi mai lasciato lusingare dai vari stimoli.

Egli è stato se stesso con una inossidabilità inattaccabile, fedele al suo istinto pittorico, alla sua cultura, alla sua lunga esperienza artistica e, soprattutto, al “piacere di compiacere” l’osservatore.

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