Édouard Manet il moderno


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Édouard Manet, Il pifferaio

Se c’è un pittore che fa da spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ il moderno di fine Ottocento, questo non può essere che Édouard Manet. A tale proposito, fin dal XX secolo, i critici e gli storici dell’arte discutono a lungo e a fondo se non ritenerlo l’ultimo legittimo geniale rappresentante di un percorso ormai concluso oppure l’apripista proprio della modernità fatta persona. Insomma Manet primo impressionista (ammesso e non concesso che siano proprio gli Impressionisti i veri iniziatori dell’arte moderna) oppure un pittore ancora classicamente romantico (o romanticamente classico) ma già rivolto a nuove idee, a inedite soluzioni, a lungimiranti espressività? Forse la questione non andrebbe posta in termini così assoluti, trancianti, manichei: Manet difatti non è sono ‘così’ o solo ‘cosà’, bensì simboleggia una realtà (pittorica e non) assai complessa e variegata, alla pari del mondo che lo vede, lo accetta, lo incita come artista, come uomo, come personalità.

Da un punto di vista strettamente oggettuale (ma non oggettivo) risulta chiaro che Manet comincia con un’arte legata alle correnti realiste e termina con una pittura decisamente impressionistica: tuttavia è diverso, in lui, l’atteggiamento spirituale, la concezione estetica, persino l’ethos inventivo rispetto a colleghi quali Monet, Degas, Renoir, Pizzarro, Sisley, la Morisot. Gli Impressionisti, di lui poco più giovani, infatti, talvolta, si chiudono a riccio nei confronti della modernità che pure, sul piano formale, rappresentano e spesso incarnano fino nel profondo: a livello tematico, seguendo una prospettiva sociologica, il disimpegno sembra quasi totale; la pittura di cavalletto – di cui restano simbolicamente gli iniziatori – conduce infatti gli impressionisti fuori dalla metropoli, a rifugiarsi in campagna o nei giardini di casa, a evitare l’umanità persino nei soggetti ritratti: del resto, come si sa, prevale nell’impressionismo quasi sempre il paesaggio (oppure la figura ma astrattegiante, come ad esempio le ballerine classiche).

Certo, il disimpegno resta forse sono contenutistico, perché la ricerca tecnico-formale degli impressionisti è qualcosa di straordinariamente originale che rivoluziona la prassi e il concetto dell’arte stessa, la quale, da quel momento, diventa finalmente ‘moderna, stricto sensu. In Manet l’urgenza espressiva si cala invece su altri aspetti, in cui Dove domina la vita urbana, la metropoli variegata, l’atmosfera parigina, che inventa la prima città moderna su ogni fronte: urbanistica, architettura, trasporti, divertimenti, relazioni sociali, ritrovi, cabaret, café-chantant, quartieri bohémien, nuovi linguaggi (la fotografia, il feuilletton e poco più avanti il cinematografo). Manet, come per molti versi Toulouse-Lautrec, è partecipe di questa nouvelle vague del moderno otto-novecentesco: non a caso, studiando o sfogliando il catalogo Skira della mostra tuttora in corso Manet e la Parigi moderna – Milano, Palazzo reale, 8 marzo – 2luglio 2017 – si intuisce perfettamente il ruolo metaforico che la capitale francese gioca con il grande pittore: la suddivisione in dieci temi nel volume – curato da Guy Cogeval, Caroline Mathieu, Isolde Pludermacher – è indice di uno strettissimo connubio fra città e artista, come nessuno in quegli anni riesce o vuole attuare.

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