Albino Galvano


Stampa

Se fosse vissuto in altri tempi e in altri luoghi, probabilmente Albino Galvano (Torino 1907-1990) avrebbe avuto maggiore fortuna; la sua poliedrica genialità sarebbe stata riconosciuta e le sue idee innovative sarebbero state più influenti sulla cultura e sulla società. Invece, la frenesia dei cambiamenti, il rapido evolversi delle mode e dei costumi in atto nella seconda metà del Novecento, la “torinesità” opprimente, gli sono stati fatali e, nel caso in cui le distrazioni caratteristiche del mondo moderno portassero a dimenticarlo, si produrrebbe una imperdonabile lacuna nel percorso della storia dell’arte. Si pensi a quanto sono più note le attività di alcuni suoi compagni di avventura; per esempio, Giulio Carlo Argan, di cui fu compagno di studi e di banco al Liceo classico Massimo d’Azeglio a Torino, o Gillo Dorfles, Bruno Munari, Atanasio Soldati, Carol Rama, con i quali firmò il manifesto del M.A.C. (Movimento Arte Concreta) nel 1948, manifesto di cui fu promotore, nel 1950, della sezione torinese con Paola Levi Montalcini, Filippo Scroppo, Adriano Parisot.

Albino Galvano-Cielo, 1980, olio su tela cm 440×210

Di origini nobili e notabili piemontesi, discretamente benestante, Albino Galvano fu anche “benefattore” dei suoi compagni. Nei due momenti difficili post bellici ospitò nelle sue dimore e nutrì chi all’epoca era meno fortunato di lui, segnando così la sua rovina economica; accolse sempre tutti disinteressatamente e con grande affetto, ma, come umanamente accade, ognuno dimenticò appena possibile il bene ricevuto. Galvano era grande anche nell’animo e non pretendeva mai gratitudine dal suo prossimo per ciò che aveva fatto e dato, mentre si rammaricava spesso, e ne soffriva profondamente, di essere stato abbandonato, soprattutto da coloro che, al contrario, avevano ricevuto i suoi benefici. Si sentiva isolato, in questo senso, perché effettivamente solo non era mai; intorno a lui c’erano sempre numerosi giovani, e non soltanto studenti del Liceo dove insegnava filosofia. Era un vero piacere ascoltarlo, perché possedeva doti speciali, di affabulatore paterno, con la sua calma, la sua sapienza, la sua saggezza, insieme a quella modestia apprezzata dagli interlocutori, che si è rivelata sua nemica.

In vita, la sua attività fu molto intensa, quella espositiva e soprattutto quella teorica e pittorica. Dal 1930, a soli 23 anni, partecipò con una certa regolarità alla Biennale di Venezia, fino al 1956; dal 1931 alla Quadriennale di Roma, fino al 1965; dal 1932, quasi ininterrottamente, alle Esposizioni annuali della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino.

Come teorico, oltre al meglio conosciuto M.A.C., nel 1945 fondò l’Unione Culturale di Torino, assieme ad Antonicelli, Menzio, Geymonat; scrisse e collaborò con numerose riviste d’arte e di letteratura, tra cui “L’Arte” diretta da Lionello Venturi e a quelle dirette da Mino Maccari: “Italia Letteraria”, “Emporium”, “Il Selvaggio”, “Le Arti”; fu responsabile della pagina della critica d’arte su “La Nuova Stampa” e “Mondo Nuovo”; con Pippo Oriani, nel 1946 fondò la rivista “Tendenza”. Inoltre, scrisse saggi e presentazioni per numerosi artisti, sia maestri storici e contemporanei che giovani ed emergenti, trattando le loro opere sempre con grande acume e competenza. Anzi, un artista si sentiva incompleto finché non otteneva una presentazione di Galvano.

Come artista, pur non sottovalutando la sua vena spontanea e la sua naturale inclinazione poetica, si forgiò alla famosa Scuola di via Galliari, retta da Felice Casorati; successivamente fu, prima, assistente alla cattedra di pittura di Enrico Paulucci all’Accademia Albertina di Torino, poi, professore di figura disegnata al Liceo Artistico di Torino e all’Istituto d’Arte di Castellamonte; infine si dedicò all’insegnamento della filosofia al Liceo Classico per tutta la sua carriera.

Il personaggio Galvano è interessante sotto tutti gli aspetti ed appartiene certamente all’esigua schiera di costruttori della cultura del Novecento. Approfondendone la conoscenza, attraverso scritti e documenti, se ne ha una visione veritiera. Ancor più e meglio ci si rende conto della grandezza della sua mente seguendone l’evoluzione artistica, le molteplici esperienze, la ricchezza delle opere pittoriche, non intesa come produzione numerica, ma concettuale e formale. Come i suoi coetanei, attraversò i momenti più esaltanti dell’arte del secolo scorso; ne visse le rivoluzioni, le polemiche; contribuì ai cambiamenti fondamentali e, spesso, precorse le nuove risoluzioni estetiche rispetto ai colleghi europei più noti. Per esempio, guardando a distanza di tempo e confrontando le date, è evidente che ha preceduto di qualche anno la gestualità di Hartung e di molti anni la sintesi delle immagini poi proposta e divulgata dagli artepoveristi. Importante per lui era la sua “…’anima d’artista’. Le lascio le briglie sciolte e sono il primo ad essere curioso di vedere dove va a saltare o a rompersi il collo…”, conservando, però, riconoscenza verso “…coloro cui, col mio maestro Felice Casorati, debbo più in ogni senso…”.

Nelle opere del primo periodo, prodotte vivendo in una società annichilita dalle depresse condizioni generali ed economiche e poi devastata dalla seconda grande Guerra, quando la rivoluzione culturale era l’ultimo dei pensieri di chiunque, gli insegnamenti ricevuti emergono sia nelle immagini che nelle tecniche, anche se dipinti e disegni denotano già uno stile personale e sicuro. Il passaggio all’espressione successiva, cioè al periodo astratto e l’adesione al M.A.C., lo descrisse così, nel 1980: “…Un arco di lavoro e un gioco di rinvii in cui si muovono inquieti i fermenti di ciò che la vita offriva come spettacolo e di ciò che su quell’immagine non cresceva nulla. Tracciatura di segni e di parole, un inizio di fedeltà figurativa e lirica a quei ‘nutrimenti’, poi l’ambizione di contrapporre a quella fedeltà, sull’esempio di un’evoluzione della cultura che, intorno alla metà del secolo, rivendicava, sulla scia delle prime avanguardie, la preminenza della libertà fattuale, dell’immagine inventata su quella contemplata: prima in forme rigidamente geometriche (fu il movimento del M.A.C.) poi nella scoperta della libera e lirica invenzione informale, …”. Le “forme rigidamente geometriche” dei primi anni Cinquanta del ‘900 costituiscono, per se stesso, la reale rampa di lancio e anticipa una forte, determinata libertà espressiva, mentre nel contesto artistico generale rappresentano il preludio dell’arte programmata e cinetica influenzata dallo spazialismo. Ma, sostanzialmente, si legge un rifiuto agli incasellamenti; verità peraltro dichiarata dall’artista stesso, e le varie influenze storiche e coeve sfiorano solo marginalmente le immagini di Galvano in cui quelle “forme rigidamente geometriche” del “Calligramma” e delle diverse “Composizioni” non sono così rigide, ma fluttuanti e persino sinuose; solo i segni lineari sono retti. Inoltre, l’apposizione dei pigmenti è avvenuta con spatole e grandi pennelli, per cui la materia è abbondante e genera, negli andamenti, forme e dinamicità dentro altre forme predeterminate costruendo spessori reali e volumi virtuali, anche per via di sapienti brevi aree di contrasto.

È il passaggio all’informale che libera pensiero, fantasia, creatività e persino una sorta di scommessa con se stesso, di provocazione, di spinte e azzardi, proprio per “…vedere dove [la sua anima d’artista] va a saltare o a rompersi il collo…”. È il periodo della scoperta lirica e cromatica. Siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando nelle opere con titoli presi in prestito dalla mitologia o da immaginazioni spaziali, come altre “Senza titolo”, esplodono i colori che diventano soggetti e simboli della propria visione personale del tema indicato ed il quadro è un reale “luogo”, quasi sempre gioioso, magico, misterioso, composto sia con toni brillanti che con cromie tenui, contemporaneamente, liberamente volteggianti su (o dentro) uno sfondo gessoso o trasparente, la cui esecuzione denota un certo cedimento alla tentazione ludica.

Lo svolgersi successivo avviene tutto in questo spirito, grazie a cui le immagini, svincolate dal rigore dell’adesione ad una forma prestabilita o ad un “linguaggio” incorruttibile, volgono “… a oscillazioni fra il recupero della contemplatività e quello della fattualità …”, ossia sono l’espressione della suggestione lirica nella percezione di dati reali. Si sviluppa, così, l’immagine definito da Galvano stesso “neo-liberty” per le figure filiformi, floreali e le volute segniche; è la stagione degli iris, dei nastri, delle bandiere ed anche cespugli, rocce, ciottoli, i quali ultimi declinano verso una sintesi compositiva che sfocia anche in quello che egli chiamava “alfabeto asemantico”, ossia le composizioni di ritratti segnici simili ad una scrittura fatta di segni convenzionali, ma dipinta. Tra gli iris, le “forme sinuose” e “pseudo organiche” oltre che richiamano cenni “barocchi del primo periodo”, ci sono opere, in genere “composizioni”, di grande interesse nelle quali è sfruttato il fondo bianco della tela (come già nelle opere “neo-liberty”) su cui si stagliano forme verticali policrome, come pennellate multicolore, o multi pennellate parallele rette o semicerchi; di nuovo un richiamo alla geometria, ma non più con “forme rigide”, ma piuttosto con gesto deciso, quasi un segno fatto di getto con mano sicura, un largo graffio colorato, che esprime la complessità dell’atto pittorico eseguito in più tempi e risolto nell’estrema sintesi formale, in cui il concetto risiede nella scelta cromatica, l’uso sul non uso del colore. Qui, persino la materia è liquefatta, trasparente, sottile, velata. Eppure le profondità, la diversificazione delle misure e degli spessori, l’intensità variabile delle cromie, generano un’area variamente prospettica dove l’apparente vuoto, il non dipinto, è volume, mentre il ritmo delle figure cromatiche introduce la percezione della quarta dimensione in un’opera bidimensionale, ossia il movimento dal quale è intuibile l’elemento temporale non cronologico.

Ecco perché sarebbe utile per la storia dell’arte italiana, oltre che interessante, poter effettuare maggiori studi su Albino Galvano. Ciò che è poco chiaro è proprio questa situazione, ossia l’accantonamento di un personaggio così geniale e non si capisce se viene guardato con sospetto perché ha fatto troppe cose, e tutte bene, oppure se non ci si ritiene all’altezza di esaminarne l’operato.

Share Button