La scoperta di Vivian Maier


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Senza titolo, Autoritratto, senza data. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.

Proseguirà fino all’8 ottobre nella Loggia degli Abati di Palazzo Ducale a Genova la mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, promossa dal Comune di Genova, dalla Regione Liguria e da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, prodotta da Civita Mostre, realizzata da diChroma Photography in collaborazione con Fondazione FORMA per la Fotografia. La mostra presenta 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super 8.

L’opera di questa fotografa è stata scoperta solo di recente grazie a John Maloof che nel 2007, mentre lavorava a un libro sulla storia degli abitanti di Portage Park (una comunità nel Nordest di Chicago), acquistò in un’asta parte dell’archivio Maier. Maloof capì subito di aver tra le mani un tesoro e infatti decise di non fermarsi lì, proseguendo la sua opera di collezione del materiale che la riguardava (150.000 negativi e 3.000 stampe). Questo lavoro è culminato con “Alla ricerca di Vivian Maier”, film-documentario del 2013 girato assieme a Charlie Siskel, che oltre ad aver ricevuto numerosi riconoscimenti è stato nominato all’Oscar 2015.

Ma chi era esattamente Vivian Maier? Governante e bambinaia per professione, fotografa per vocazione, si potrebbe affermare in estrema sintesi. Nacque a New York nel 1926. Dopo che i genitori si separarono si trasferì in Francia fino all’età di 12 anni assieme alla madre e a una sua amica (guarda caso fotografa). Nel 1938 tornò nella città natale e iniziò a lavorare come tata fino al 1956, anno in cui si spostò a Chicago in casa della famiglia Gensburg. In questo lasso di tempo non abbandonò mai la sua Rolleiflex prima e la sua Leica dopo con cui immortalò in maniera quasi compulsiva tutto ciò che la circondava. Un esercizio svolto per pura passione, in toni dimessi ma solo in apparenza. «Dobbiamo lasciare spazio a coloro che verranno dopo di noi. È una ruota. Si sale e si arriva fino alla fine, poi qualcuno prende il tuo posto e qualcun altro ancora il posto di chi lo ha preceduto e così via. Non c’è niente di nuovo sotto il sole», così giudicava il suo essere fotografa. Morirà il 21 aprile 2009 per i postumi di un banale incidente.

Vivian Maier è stata dolce e intransigente al tempo stesso con i suoi soggetti (bimbi, anziani, città i preferiti), quasi come fossero i bambini dei quali si prendeva cura quotidianamente. Ha anticipato la “street photography” che oggi va tanto di moda, ma ridurla a ciò sarebbe ingeneroso nei suoi confronti. Resta sorprendente il fatto che i suoi scatti non siano mai stati esposti né pubblicati mentre lei era in vita e la maggior parte dei suoi rullini non siano stati sviluppati. Sembrava che premesse il bottone della sua macchina solo per sé stessa, per un suo archivio personale e basta. Ciononostante, non sappiamo se inconsapevolmente o meno, ha saputo donare uno sguardo unico sui cambiamenti sociali e culturali dell’epoca in cui ha vissuto, lasciandosi influenzare in questo processo da maestri come Weegee, Robert Frank e Henri Cartier-Bresson. Ha documentato un momento di passaggio. Il suo, che grazie a Maloof è diventato a posteriori anche il nostro.

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