Mark Tobey. Luce filante


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Mark Tobey, Campo selvatico (Wild Field) 1959-The Museum of modern art, New York, Collezione Sidney e Harriet Janis

di Luca Baldazzi

 

Una proposta interessante, nel periodo di apertura della Biennale e nel ricco panorama espositivo veneziano, arriva dalla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia che dal 6 maggio al 10 settembre offre la mostra “Mark Tobey. Luce filante”, a cura di Debra Bricker Balken.
Si tratta di una esaustiva retrospettiva dedicata a Tobey realizzata negli ultimi vent’anni in Europa e la prima in assoluto in Italia. Sono esposti 70 dipinti, che spaziano dalle produzioni degli anni ’20 fino ad arrivare agli anni ’70, con i quali si indaga la portata della produzione artistica di Tobey per rivelarne lo straordinario, quanto radicale, fascino del suo lavoro. L’esposizione si configura come un attento riesame della produzione artistica di Tobey, tra i maggiori artisti americani a emergere negli anni ’40, in quel decennio clou che vide la nascita dell’Espressionismo astratto, riconosciuto come figura d’avanguardia, precursore con la sua “scrittura bianca” di quelle innovazioni stilistiche introdotte di lì a poco dagli artisti della Scuola di New York, quali Jackson Pollock.
La mostra è organizzata da Addison Gallery of American Art, Phillips Academy, Andover, Massachusetts ed è stata resa possibile grazie al generoso sostegno di Sidney R. Knafel Exhibition Fund, Peter ed Elizabeth Currie, Stephen C. e Katherine D. Sherrill, e della Josef and Anni Albers Foundation. Inoltre, il contributo di Douglas e Janet True ha reso possibile la pubblicazione del catalogo edito da Skira Rizzoli in italiano e inglese, che documenta molti dei lavori di Tobey, con un approfondito saggio dedicato all’artista e al suo contesto culturale della curatrice Debra Bricker Balken, la cui ricerca è focalizzata sull’unicità dello stile di Tobey e sul ribadire il suo ruolo determinante all’interno della scena artistica americana.
Tobey ha lasciato un segno forte nella storia dell’arte del ‘900 per le sue rappresentazioni calligrafiche, uniche nel loro genere, che risultano essere il risultato di una lirica integrazione tra due culture figurative, l’occidentale e l’orientale, che spaziano dalla tradizionale pittura cinese su pergamena al Cubismo europeo. Tale forma di astrazione deriva dalle diverse esperienze fatte dall’artista che ha vissuto tra Seattle e New York, ha viaggiato a lungo tra Hong Kong, Shanghai, Kyoto e l’Europa, e si è convertito alla fede Bahá’í, religione abramitica monoteistica nata in Iran a metà del XIX secolo.
Il lavoro di Tobey, innovativo e peculiare nelle influenze che esercita e nella sua bellezza intrinseca, incarna a pieno l’anima internazionale del modernismo della metà del XX secolo, aspetto finora inesplorato dalla critica dell’arte post-bellica.

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